Io, ventunenne di Manfredonia, sono diventato tra i primi donatori di plasma della mia città
La storia di Cristiano, ventunenne manfredoniano che, insieme alla sua famiglia ed alla sua ragazza, ha vissuto sulla sua pelle, con tutte le conseguenze del caso, l’esperienza diretta con il Covid-19 , merita di essere raccontata e divulgata, quale monito indispensabile al non arrendersi ed al non abbattersi mai.
Facendosi scudo, anzi, con la propria forza interiore, contro il pregiudizio stigmatizzante della società circostante.
” Credo fermamente che il virus dell’ignoranza e la cattiveria umana, siano molto più pericolosi del Covid-19 che, prima o poi cesserà d’esistere e sarà sconfitto. Non posso sapere con estrema certezza dove io abbia contratto il virus, in quel particolare periodo di fine settembre.
Il sottoscritto lavorava e faceva turni molto stressanti. Ad un certo punto, verso la fine del mese, iniziai ad avvertire sintomi legati ad un’insolita stanchezza e spossatezza, accompagnati da mal di testa. Pensavo, in realtà, si trattasse di astenia fisica legata al lavoro, dato che non avevo nemmeno il giorno di riposo settimanale. Ma, quando iniziai ad avere decimi di febbre, provai molta paura e chiamai subito il mio medico curante.
Il quale, inizialmente, con molto equilibrio, mi disse di non preoccuparmi, dato che, non necessariamente dovesse trattarsi di Covid, ma potesse essere anche una normale influenza, essendo la sintomatologia molto simile. Da persona fiduciosa e positiva, quale sono, ed essendo anche molto giovane, oltre ad aver condotto sempre una vita piuttosto normale e tranquilla con la mia fidanzata, poche volte con gli amici, non pensavo minimamente potesse trattarsi di quell’infezione.
Assunsi degli antibiotici e mi autoconvinsi si trattasse, magari, di una banale influenza, essendo soggetto, sin da piccolo, ad infezioni legate ad orecchio, naso e gola. Pensai di riposare e distendere corpo e mente dalla stanchezza intensa.
La febbre, i decimi, passarono subito dopo il mio risveglio. Allora, continuai a fare la mia vita ed il mio lavoro( premessa facendo che avessi anche avvisato il mio datore di lavoro che non stessi bene, senza allarmarlo), sebbene mi sentissi a pezzi fisicamente. Rientrato a casa dal lavoro,però, sentendomi nuovamente accaldato, rimisurai la temperatura, scoprendo che la febbre fosse nuovamente salita. Cominciai di lì ad allarmarmi, soprattutto dopo che iniziai a mangiare, non avvertendo minimamente il gusto del cibo.
Ricordo benissimo quella domenica in cui, anche mia madre e la mia ragazza iniziarono a non sentirsi tanto bene. Fu allora che, decisi di ricontattare il medico, il quale mi chiese se avessi avuto dei contatti con qualche positivo o con qualcuno che fosse rientrato dalla zona rossa. La mia risposta fu negativa. Ma, approfittai per descrivere nuovamente la mia sintomatologia, al cui elenco si erano aggiunti i sintomi legati alla perdita del gusto e dell’olfatto.
A questo punto, il medico mi intimò di restare a casa, dicendomi che mi avrebbe fatto il certificato di malattia. E non solo. Allora, dunque, essendo un sospetto Covid, avrebbe inoltrata la segnalazione alla ASL, da cui poi, sarei stato contattato per eventuali tamponi. Fornii, naturalmente, i nominativi di tutti coloro che fossero stati a contatto con me, tra cui mia madre e la mia ragazza, molto scossa da questa situazione, ma soprattutto dai sensi di colpa, quelli che la gente ti fa venire, perché ha il barbaro coraggio di trattarti come un appestato. Iniziò, così, la nostra quarantena pre/tampone.
Il 4 ottobre, finalmente, facemmo il tampone. Il giorno seguente, purtroppo, ricevemmo il tristissimo esito della positività, di tutti e 3: io, mia madre e la mia ragazza. Da lì, cominciammo a farci mille domande . Alle quali, era davvero difficile dare delle risposte. Non è stato per niente facile ricevere questa notizia. Il trauma, in una situazione del genere, non è tanto il Covid perché, grazie a Dio, noi siamo stati toccati in maniera lieve: ma, il giudizio altrui. Certo, siamo stati male, ma non eccessivamente. Mia madre e la mia ragazza, ad esempio, ebbero la febbre per 5 o 6 giorni.
Io, invece, dopo l’esito della positività, ebbi solo un altro giorno la febbre, associata alla diarrea e sintomi gastrointestinali. Io e mia madre avemmo un sintomo in comune: la perdita dell’olfatto e del gusto. A me iniziò prima di lei, e fu l’ultimo ad andare via, considerando che possa durare anche due mesi.
È molto persistente. La battaglia più dura da combattere, fu quella contro i pregiudizi della gente: persone contro, chiamate anonime, non di aiuto e supporto, ma di offese e sconforto. Io dovetti farmi forza, soprattutto per tutelare la mia ragazza, molto più fragile di me. Ci sentimmo soli ed abbandonati.
Per fortuna, almeno, risultarono negativi tutti coloro i quali erano stati a contatto diretto con noi. Fu allora che tirammo un grande sospiro di sollievo ed il senso di colpa che ci oppresse inizialmente, non c’era quasi più. Anche mio padre era risultato positivo al tampone. I suoi unici sintomi furono il raffreddore e cefalea, per lui usuali, durante tutto l’anno, essendo un soggetto allergico. In quel periodo, cercai di tirar fuori da me una forza incredibile, tale da poterla trasmettere alla mia famiglia. Leggevo, mi allenavo sul mio terrazzo, mi davo da fare per rompere quella situazione di stallo e monotonia, durante quella quarantena trascorsa in famiglia.
Pregammo giorno dopo giorno, in maniera sempre più intensa. Era sempre più dura stare dentro, non lavorare, non vedere la propria ragazza o i propri amici, non vivere la propria quotidianità. Ma, soprattutto, il combattere contro le critiche della gente. Terminata la quarantena, fummo contattati dalla dottoressa della ASL e rifacemmo il tampone. Questa volta a San Marco e praticamente, il giorno dopo, ricordo benissimo fosse di sabato, mi trovavo, particolarmente irrequieto, nella mia cameretta, dove attendevo l’esito.
La mia ragazza e mia madre, finalmente, risultarono negative. Ero felicissimo per loro. Solo io ,purtroppo, ero risultato, ancora una volta, positivo. A quel punto, ebbi un crollo emotivo. In quel momento, il mio volto cominciò a rigarsi di lacrime. Ero afflitto. La mia paura più grande, era dettata dal fatto che il Covid potesse sfociare in qualcosa di più grave e, giorno per giorno, temevo per la mia situazione. Dopo l’ennesima quarantena, sempre a San Marco, poi, rifeci il tampone; nel mentre, la paura mi divorava, nonostante non avessi più sintomi, eccettuati quelli legati alla perdita del gusto e dell’olfatto.
I quali, come detto precedentemente, richiedono un tempo maggiore, per scomparire definitivamente. Finalmente, il giorno successivo all’ennesimo tampone effettuato, in concomitanza con il mio papà, ricevetti la bellissima notizia, attesa da tempo: la negatività di entrambi. Da questa esperienza, ad esempio, tra i vari insegnamenti ricevuti, ho potuto costatare che le donne guariscano prima dal virus, perché credo abbiano degli anticorpi più reattivi rispetto a quelli dell’uomo. Quindi, mia madre e la mia ragazza guarirono entrambe, contemporaneamente, dopo circa due settimane. In seguito alla notizia dell’esserci negativizzati, ottenemmo la certificazione che, tuttora, conservo. Con la sicurezza, poi, di essere inseriti direttamente, con i miei e nostri nominativi, nei database.
Nel pomeriggio stesso del giorno in cui ricevetti la tanto attesa notizia, finalmente uscii. Ed allora, iniziai a riassaporare il gusto e la bellezza della vita, dando valore ad ogni singola cosa: l’alba, il tramonto, il cinguettio degli uccelli, l’odore del ragù per strada, durante le giornate festive, l’abbraccio tanto desiderato con la mia ragazza, la dolcezza di un bacio. Tante cose che, magari, ad alcuni potrebbero sembrare banali e che io stesso, prima di vivere questa esperienza, davo per scontate. Il consiglio che oggi mi sento di dare alla gente, ai ragazzi, agli anziani, a chiunque è quello di non lasciarsi mai abbattere da niente e nessuno, ma reagire. Sempre e nonostante tutto. Da quel momento, la mia vita tornò alla normalità.
Io, invece, non tornai più al mio preesistente lavoro, ma ne trovai un altro, sebbene part/ time, con il quale mi arrangio, nell’attesa di una sistemazione migliore. Dopo un paio di settimane dalla guarigione, la mamma della mia ragazza, attraverso notizie desunte dai notiziari e dalle testate giornalistiche locali, venne a conoscenza della possibilità di donare il plasma, per poter contribuire alla guarigione di altri malati. Lei stessa contattò i numeri di questo centro trasfusionale di San Giovanni Rotondo. Giunti li, fummo sottoposti ad una sorta di test sierologico, per rilevare gli anticorpi presenti in entrambi: i miei e della mia ragazza.
Per donare, chiaramente, si ha bisogno di un titolo anticorporale elevato. Ci prelevarono 11 provette di sangue, per l’effettuazione di tutti i test del caso. Dopo due settimane, però, fui contattato soltanto io, perché risultato idoneo alla donazione. Il primo, tra tutti coloro i quali si fossero sottoposti ai test, per verificare ciò. Mi recai nuovamente presso il centro e, dopo essere stato sottoposto ad un esame elettrocardiografico, attraverso un ago infilato nel mio braccio sinistro e collegato con un sacca ed altri dispositivi ad un macchinario, mi prelevarono all’incirca 660 ml di plasma, su di un litro circa di sangue.
Ricevetti un buono per la colazione e fui inondato di ringraziamenti, soprattutto, legati al fatto di essere stato il primo ad aver inaugurato questo reparto di donazione del plasma: quest’ultimo, utilizzato per essere infuso nei pazienti che manifestano sintomi medio/gravi, per far regredire lo stato della malattia. La tristezza del precedente periodo trascorso, fu sopraffatta dalla felicità per aver, magari, salvato una vita, con la mia donazione. Bisogna sensibilizzare incessantemente, affinché ciò possa diventare una sana abitudine. Se potessi tornare indietro, rifarei tutto quello che ho fatto.
Ma, soprattutto, insisterei nel sottolineare e ricordare a chiunque dovesse imbattersi in questa malattia, di non perdere mai l’ottimismo e la speranza. Perché, credetemi, c’e’ sempre una luce in fondo al tunnel. Ed è questa, una delle tante meraviglie che la vita ci offre. Ragion per cui, va vissuta intensamente. Sempre.”
Giulia Rita D’Onofrio.